Molti suoni ci attraversano le orecchie, entrando ed uscendo indisturbati, senza lasciare
traccia del loro ricordo, mentre ascoltiamo distrattamente la radio. Come una partita a calcio
con gli amici, sotto il cielo estivo, mentre si aspetta l'ora di cena. Si gioca per giocare, ma negli
anni non rimarrà memoria di quegli afosi momenti.
Più rare volte capita che lungo i solchi rigati di un vecchio vinile, o nell'arcobaleno di un compact disc, troviamo suoni destinati a segnare la nostra esistenza.
Così è stato per me quando, per la prima volta, ho ascoltato Led Zeppelin II. Il suono della
chitarra di Jimmy Page, che con le sue dita veloci la violentava, accarezzava e amava. Melodie
che, anziché perdersi nell'etere, rimanevano imprigionate nella mia stanza, pronte per essere
riacciuffate ogni volta in cui ne avessi bisogno. La voce di Robert Plant, così calda e potente da
sembrare un uragano in una giungla, nella quale John Bonham è custode del tempo e John Paul
Jones dello spazio, confinato nei suoi giri di basso.
Whole Lotta Love è tutto ciò di cui un disco ha bisogno per iniziare in modo perfetto. Un riff
copiato spudoratamente da Willie Dixon e Muddy Waters, ma reso immortale dai Led
Zeppelin. Chitarra e voce si perdono in lunghi minuti psichedelici, scanditi dalla batteria di
Bonham, per poi ritrovarsi a fare l'amore, in un rincorrersi e acciuffarsi che culmina in un
orgasmo. L'aver rubato a due grandi artisti poteva essere un grosso rischio, ma le cose sono
andate in tutt'altro modo. Page e Plant hanno pianificato un furto che ha portato loro fortuna e
gloria. Chiunque, anche se non conosce il gruppo, sulle note di Whole Lotta Love, viene colto
da un lampo che fa luce nella testa: “Si, la conosco”, dirà.
What Is And What Should Never Be è una delle mie canzoni preferite del disco. La dolcezza di
Plant nel cantare la strofa esplode in un grido nel ritornello. La parte più emozionante della
canzone, però, sta nel finale, quando la chitarra di Jimmy Page passa da una cassa all'altra
dello stereo, quasi fosse incerta su quale scegliere, per poi prendere una decisione e
possederle entrambe, macchiando il chitarrista di bigamia.
Il lato osceno, dal punto di vista musicale e lirico del gruppo emerge nella terza traccia: The
Lemon Song. L'apparato genitale maschile viene paragonato da Plant al limone, che va
strizzato per ottenere il suo succo. Il basso di Jones si muove lungo i sei minuti e rotti della
canzone improvvisando, lasciandoci spiazzati per la sicurezza con cui serpeggia lungo questo
blues.
Dopo tre canzoni colme di accordi elettrici, con questa Thank You i Led Zeppelin ci immergono
in un lago di rose, bagnate dalla luce del crepuscolo. Plant scrive il testo pensando alla moglie
Maureen, mentre Page tesse una melodia semplice, ma che ben si sposa con le parole del
cantante. I momenti acustici nei loro dischi sono sempre di qualità elevata: pare che la potenza
virile vada per un attimo a dormire; ma un occhio è sempre aperto: vigile e pronto a rimettere
in funzione il corpo.
Ed è ciò che accade nella canzone successiva. Le eteree atmosfere sognanti del brano
precedente vengono subito dimenticate da un altro riff, scolpito nella dura pietra del rock.
Heartbreaker è un terremoto, un risveglio brusco, che sfocia in un infuocato assolo di chitarra.
Sembra che le dita di Page solletichino i nostri timpani, facendoli vibrare come le corde della
sua Gibson. Un'emozione sale vertiginosamente lungo la schiena, ed esce dalla bocca,
lasciandoci appagati.
Living Loving Maid è una canzone di passaggio, un gradevole affresco rock che segue le fila di
Heartbreaker. I brividi continuano a farsi sentire, eco infiniti che risuoneranno per sempre
nella nostra testa.
Le ultime tracce sono forse superiori qualitativamente alle prime tre, soprattutto Ramble On.
Torna la chitarra acustica, le bacchette di Bonham tengono il tempo su una custodia per
chitarra, e il basso di Jones si muove con leggiadria fra i toni pacati della strofa e quelli più
sostenuti del ritornello. Plant ci parla di Mordor e Gollum, chiari riferimenti al Signore degli
Anelli di Tolkien. Una perla in un mare di diamanti.
Basterebbe il riff di Moby Dick, per rimanerne stregati. Invece Bonham ci delizia con un assolo
di batteria, che riempie il resto del brano. Le mani e le bacchette del batterista giocano sulle
pelli, superfici che conoscono bene, regalandoci caldi attimi di ritmo. Dal vivo Moby Dick
veniva estesa per venti minuti. Il pubblico degli anni '70 aveva buon gusto, ma era anche
estremamente paziente.
Il cerchio si chiude con Bring It On Home, unica cover del disco. Una canzone che esplode nella
sezione centrale, per poi tornare ad essere un tranquillo blues alla fine, riprendendo i toni
iniziali. Le parole di Plant si perdono nei meandri dell'armonica a bocca, uscendo gonfie di
alcol.
Si conclude così una cavalcata di più di quaranta minuti. Spero che le mie parole vi abbiano
invogliato ad ascoltare Led Zeppelin II, o a riascoltarlo, per farvi immergere in un mare caldo,
a volte in tempesta, altre quieto. Un viaggio che comunque vale la pena vivere.
Alberto Meneghello
Scrivi commento